Riflessioni sulla storia del Cristianesimo (2)


1. La diffusione originaria del Cristianesimo

Per alcuni anni dopo la morte di Gesù, il Cristianesimo, che si proclama come il completamento della rivelazione biblica, e dunque il vero Giudaismo, rimane confinato a Gerusalemme, ove gli Apostoli e i Discepoli tentano vanamente di convincere gli Ebrei osservanti che Gesù, Figlio di Dio, è il Messia da loro atteso. Di fronte ad un’insormontabile resistenza culminata prima nell’uccisione di Stefano e nella cacciata dei giudeocristiani ellenisti e, poi, nell’uccisione di Giacomo e nella cacciata dei giudeocristiani ebrei, coloro che rimangono fedeli a Gesù si disperdono nell’area mediorientale, e in particolare nelle città in cui sono già presenti comunità ebraiche. Qui essi si trovano, in una condizione assolutamente minoritaria, tra due fuochi: da una parte, i Giudei osservanti, dall’altra i pagani.

La "buona novella", il cui nucleo essenziale è la promessa della salvezza e della felicità eterna per chi crede in Gesù e rispetta il comandamento supremo della carità, si diffonde oralmente. Gli Apostoli e i Discepoli, testimoni diretti della vita e della predicazione di Gesù, sono in prima fila in quest’opera di "evangelizzazione". L’area di diffusione della buona novella è però tale che essi non possono essere presenti ovunque. In assenza di testimoni diretti, la vita e gli insegnamenti di Gesù sono ricostruiti sulla base di alcuni "detti" (logia) a lui attribuiti e redatti dal nucleo degli Apostoli e dei discepoli. Occorre, dunque, ammettere un materiale protoevangelico, di cui non si conserva alcuna traccia. Trattandosi di testi non ufficiali, è probabile che essi venissero adattati alle capacità ricettive delle singole comunità e integrati dalla fantasia di coloro che li ricevevano. Questo, com’è proprio do ogni trasmissione orale, deve avere creato non poca confusione su ciò che aveva fatto e detto Gesù Gesù.

E’ stato Paolo di Tarso il primo a sentire l’esigenza di arginare la presumibile deriva mitologica del Cristianesimo. Le sue lettere rappresentano i primi scritti "ufficiali" miranti a definire una dottrina coerente, nuova e espunta dalle contraddizioni inerenti la predicazione di Gesù. Si tratta, come si è visto, di un’interpretazione fortemente orientata a sancire la rottura con il Giudaismo. Essa infatti sottolinea la divinità di Gesù, il significato salvifico del suo sacrificio e della sua risurrezione, la portata universale del suo messaggio.

L’interpretazione paolina, associata ad un’intensa attività "missionaria", vale ad indurre la separazione delle comunità cristiane da quelle giudaiche osservanti. All’interno delle comunità cristiane, però, come risulta anche da alcune lettere di Paolo, il contrasto tra cristiani ebrei e cristiani filoellenici si ripropone. Il nodo riguarda le regole e i riti cui devono attenersi i pagani che cominciano a convertirsi, a partire dalla circoncisione e dalla proibizione di alcuni alimenti. Alla fine prevale il "partito" filoellenico, vale a dire l’interpretazione paolina. Posta la fede in Gesù, Figlio di Dio, la circoncisione può essere vissuta in senso simbolico (la circoncisione del cuore) e le regole ebraiche vanno adattate alla cultura e alle abitudini degli adepti.

Su questa base si avvia, negli ultimi decenni del secolo, la diffusione del Cristianesimo presso i Gentili, che può avvalersi anche dei Vangeli di Matteo, Luca, Marco e Giovanni redatti in questo periodo (dal 70 agli inizi del II° secolo).

I Vangeli che saranno poi accolti nel Canone convivono, in realtà, con una pletora di documenti inerenti la vita e la predicazione di Gesù. Ciò che rimane di tali documenti - i Vangeli apocrifi, alcuni dei quali hanno una larga diffusione presso le comunità cristiane - consentono di capire in quale misura, al di là dell’essere Gesù il Figlio di Dio morto e risorto, la dottrina cristiana è in uno stato embrionale.

2. Il proselitismo cristiano

Intorno al 50 d. C. il Cristianesimo ha già raggiunto l’Occidente. A Roma esiste una comunità di cristiani, che vengono tollerati come una delle tante sette ebraiche. Per alcuni decenni, questa "testa di ponte", benché insediata nel cuore dell’Impero, rimane sostanzialmente e priva di spinta propulsiva per quanto riguarda l’Italia. Si tratta però di una comunità importante, non solo per le sue dimensioni, ma anche perché in essa la percentuale di convertiti appartenenti a classi agiate e colte è nettamente superiore a quella delle coeve comunità orientali. Ciò significa non solo che essa è ricca, ma soprattutto che ha un livello culturale superiore alla media.

Non è un caso che Paolo - il primo ad intuire che l’affermazione definitiva del Cristianesimo si giocherà a Roma – indirizza, nel 57, alla comunità che ivi risiede la sua lettera più famosa (l’Epistola ai Romani), che è una complessa sintesi della teologia paolina. A Roma egli si reca nel 64 e, nel 67, secondo la tradizione, muore vittima della persecuzione.

La prima diffusione di massa del Cristianesimo avviene, però, nell’area mediorientale, ed è un fenomeno imponente. Per spiegare l’attrazione che il Cristianesimo esercita, colà, presso i pagani, occorre tenere conto di due fattori: l’uno riguarda l’humus culturale su quale il seme della buona novella attecchisce, l’altro il ceto sociale dei convertiti.

Gran parte della propaganda cristiana si fonda sulla contrapposizione tra la cristallina purezza del monoteismo, arricchito rispetto alla religione ebraica dalla Passione, dalla Morte e dalla Resurrezione di Gesù, e la rozzezza primitiva del paganesimo politeista e idolatra. Si tratta di una distorsione della realtà storica.

In realtà il paganesimo orientale del I° secolo, almeno nei centri urbani, è una religione sincretica e niente affatto rozza. Essa è incentrata sui culti misterici, i quali comportano un’intima consonanza empatica tra il credente, la divinità e la totalità del mondo. Tali culti contengono, inoltre, vari miti riferiti a divinità che muoiono e risorgono. Quello che per i Giudei osservanti è scandaloso – la morte e la risurrezione di Dio – non lo è affatto per i pagani di cultura ellenistica.

A livello popolare, certo, i culti idolatrici sono ancora dominanti. A livello di ceto colto, invece, l’influenza delle religioni orientali e della filosofia greca (soprattutto lo stoicismo) ha permeato gli spiriti in maniera tale da distaccarli dall’idolatria, orientandoli verso l’intuizione dell’esistenza di un solo Dio, di cui le varie divinità sono mere manifestazioni. Essa ha anche prodotto la trasformazione della religiosità in una sorta di saggezza incentrata sulla virtù, sul controllo delle passioni, sul riconoscimento della pari dignità tra gli esseri umani, sulla solidarietà, sul disprezzo della morte e addirittura sull’aspettativa di una vita oltremondana.

Al di là dell’evoluzione della religione pagana, occorre tenere conto poi dell’organizzazione sociale intrinseca all’Impero romano, caratterizzata da una minoranza di funzionari statali e proprietari terrieri straordinariamente ricchi e una massa sterminata di schiavi, di contadini sul filo della miseria e di indigenti. Una società dunque fortemente squilibrata sotto il profilo socioeconomico, che addirittura non riconosce agli schiavi la dignità di persone. L’Impero romano è, dunque, una realtà molto rassicurante per i membri agiati e per i cittadini romani: esso comporta però una moltitudine di reietti per i quali la vita non ha senso.

Si davano dunque, nell’area mediorientale, tutte le premesse culturali e sociali atte a fare attecchire una religione incentrata sul monotesimo e sull’uguaglianza tra tutti gli esseri umani. Cionodimeno l’attecchimento risulta veramente "miracoloso". Per spiegarlo, oltre ai fattori citati, occorre tener conto di altre circostanze.

Il Cristianesimo, all’epoca, non ha ancora la complessità teologica che assumerà nei secoli successivi, confrontandosi con le eresie. Il corpus dottrinario si riduce a due soli elementi: l’esistenza di un Dio unico, che ha mandato sulla terra il Figlio prediletto affinché, con la morte, riscattasse l’umanità dal peccato e dalla morte, e il comandamento supremo del perdono e dell’amore fraterno. Si tratta di una dottrina, dunque, che, non avendo ancora un apparato dogmatico, incentrando il culto sul banchetto eucaristico e limitando i suoi riti al battesimo e alla confessione pubblica, può essere facilmente compresa e praticata da tutti. La conversione non richiede che una pratica catechetica il cui obiettivo è di preparare il neofita al battesimo.

Una volta battezzato, egli entra a fare parte di una comunità organizzata in maniera del tutto singolare rispetto alla società circostante. La comunità riconosce precocemente una gerarchia, al cui vertice c’è il vescovo, assistito dai diaconi. Ma l’elezione dei membri del clero e dello stesso vescovo avviene "democraticamente", vale a dire sulla base di una scelta assembleare. I membri della comunità, quale che sia il loro status sociale, si considerano fratelli: uguali, quindi, e dotati di una pari dignità. Vige tra essi un clima di grande solidarietà. Anche se è dubbio che tutte le primitive comunità cristiane abbiano riconosciuto un’organizzazione comunistica, incentrata sulla messa in comune dei beni, è certa la pratica dell’offerta commisurata al patrimonio personale. Questo significa che ogni persona ricca che si convertiva accresceva nettamente la disponibilità economica della comunità. Il denaro raccolto viene a fare parte di un fondo comune utilizzato non solo per sopperire ai bisogni degli orfani, delle vedove e dei poveri appartenenti alla comunità. In nome del vangelo della carità, viene utilizzato anche a favore di persone bisognose ad essa estranei.

Alla luce di questo, si può ben capire l’impatto del messaggio cristiano e della vita comunitaria in un mondo caratterizzato da fortissimi squilibri sociali, dall’inesistenza di una qualunque forma di assistenza sociale pubblica e da un’enorme massa di schiavi e di poveri.

La forza di attrazione delle comunità cristiane si fonda su di un nuovo ordine sociale, incentrato sulla pari dignità degli esseri umani in quanto figli di Dio, tanto più suggestivo quanto più esso, alleviando i disagi materiali dei poveri, promette ad essi – socialmente emarginati – l’accesso al regno dei cieli.

A questa forza di attrazione contribuisce anche una convinzione diffusa. Nonostante in una delle sue lettere Paolo abbia avvertito che la fine del mondo non è prossima e che essa non potrà sopravvenire prima che il messaggio di salvezza sia portato a tutti gli uomini, gran parte dei cristiani, facendo riferimento ai vangeli, ritengono invece quella fine imminente. Convertirsi e pentirsi significa dunque la certezza di essere dalla parte dei salvati.

Minimizzare il peso che ha avuto, nella diffusione del Cristianesimo, la prospettiva apocalittica è un falso storico. Quale altra ragione se non la imminente felicità eterna avrebbe potuto mobilitare verso di esso un numero imponente di diseredati che non avevano alcuna speranza di una vita degna dell’uomo nell’orizzonte mondano?

3. Contraddizioni dottrinarie e nascita delle eresie

Sarebbe poco realistico mitizzare le originarie comunità cristiane come se fossero un Eden. I richiami e le rampogne contenuti nelle lettere di San Paolo e alcuni brani degli Atti degli Apostoli fanno pensare che esse siano state attraversate anche da tensioni se non addirittura conflitti piuttosto seri di ordine dottrinale. Nonostante la fede comune, i giudeocristiani ebrei, i giudeocristiani ellenisti e i pagani convertiti hanno mentalità profondamente diverse. L’uomo nuovo prodotto dal battesimo non cancella certo queste differenze culturali.

Alla base di quelle tensioni occorre ammettere anche l’esistenza di tutta una serie di problemi non risolti dal punto di vista teologico.

La Passione, la Morte e la Resurrezione di Gesù e l’imminente fine del mondo, preceduta dal ritorno di Gesù stesso, rappresentano i nuclei essenziali delle credenze comuni a tutti i cristiani. Oltre ad esse, tutto il resto della dottrina rimane incerto e confuso. Gesù è il Figlio di Dio: ma se egli è distinto dal Padre, come accordare questo con il monoteismo di matrice biblica? Egli è il Dio incarnato: ma quale rapporto si dà tra la natura umana e quella divina? Egli ha patito e sofferto il supplizio della Croce: ma come può Dio aver permesso un simile oltraggio da parte degli uomini? La salvezza, poi, dipende dalla fede; ma ciò significa che le opere non contano nulla agli occhi di Dio? Essa, inoltre, riguarda tutti o è riservata a pochi eletti? Infine, posto che coloro i quali non credono e fanno il male, meritano la punizione, come accordare la dannazione eterna dei peccatori con il Dio di Misericordia?

Questi sono alcuni dei problemi che inquietano le originarie comunità cristiane, e che ricevono, al loro interno, le risposte più varie. Essi attestano che il messaggio originario di Gesù, chiaro nel suo significato morale — il comandamento del perdono e dell’amore — e sociale — l’uguaglianza tra gli esseri umani -, il cui presupposto è l’esistenza di un unico Dio creatore del mondo, non lo è affatto per tanti altri aspetti. Fin dall’inizio, insomma, nonostante la differenziazione dal Giudaismo dia luogo ad una nuova religione e ad una Grande Chiesa, identificabile con la comunità di coloro che credono in Gesù, storicamente non esiste il Cristianesimo, bensì interpretazioni diverse dello stesso messaggio, vale a dire i Cristianesimi.

Ci si può rendere conto di questo esaminando, a posteriori, l’organizzazione delle originarie comunità cristiane e, in secondo luogo, gli indizi storici che attestano l’esistenza di orientamenti dottrinali più o meno differenziati.

Gesù si è proclamato Figlio di Dio e, secondo i Vangeli, ha eletto uno degli Apostoli - Pietro — come suo rappresentante sulla terra. La Chiesa sarebbe dunque espressione dell’esplicita volontà di Dio e dovrebbe riconoscere un capo supremo.

In realtà questo sembra vero, e parzialmente, solo per l’originaria comunità gerosolimitana che per un breve periodo riconosce Pietro come capo, al quale poi si associano, con lo stesso potere, Giovanni e Giacomo, fratello di Gesù. L’uccisione di Giacomo da parte degli Ebrei fa pensare che egli abbia raggiunto una posizione di leader. Riguardo a Pietro, poi, c’è da sottolineare che il suo orientamento è piuttosto conservatore. Egli sta dalla parte dei giudeocristiani ebrei. E’ questo orientamento, legato al rispetto dell’osservanza, che spiega il contrasto con Paolo di Tarso. Tale contrasto, esplicitato in una lettera di Paolo e citato anche negli Atti degli Apostoli, deve essere stato molto più duro di quanto risulta dai testi. Esso comunque attesta che Pietro, nonostante l’investitura di Gesù, non è riconosciuto come capo supremo.

Ciò è confermato dal fatto che se è vero che ogni comunità cristiana ha un clero e una gerarchia, a capo della quale c’è il vescovo, è altrettanto vero che i membri del clero sono eletti dal basso, dall’assemblea. La Chiesa originaria è dunque nello stesso tempo gerarchica e democratica. La funzione del clero è anzitutto catechetica e organizzativa. Si tratta, per un verso, di accogliere ed istruire i convertiti, di mantenere viva la fede dei credenti alla luce dei Vangeli, di affrontare e risolvere problemi teologici e morali inerenti la salvezza; per un altro, di assicurare la coesione della comunità e di amministrare equamente il suo patrimonio, privilegiando i poveri cari a Gesù.

Ai sacerdoti e al vescovo stesso è concesso di sposarsi, per quanto ad essi si richieda un comportamento morale ineccepibile. L’unica limitazione riguarda il divieto di sposarsi una seconda volta in caso di morte della prima moglie.

La Grande Chiesa che si definisce a cavallo tra il I° e il II° secolo ha poco a che vedere, insomma, con la Chiesa come istituzione, destinata a sopravvenire verso la fine del II° secolo.

La varietà delle interpretazioni del messaggio di Gesù si evince dalla fioritura precoce, e destinata ad accompagnare per molti secoli la storia della Chiesa, di movimenti ereticali. Il termine eresia non va equivocato. Esso infatti implica una scelta dottrinaria errata in rapporto ad una verità assoluta, in quanto rivelata. La definizione stessa di eresia comporta l’esistenza di un’ortodossia e di un’istituzione che la sancisce. Ora, almeno fino alla fine del II° secolo, non si dà né un’ortodossia né un potere istituzionale adeguato a imporne il riconoscimento, bensì solo il confronto e il conflitto tra diversi cristianesimi.

Uno di questi, tra giudeocristiani ebrei e giudeocristiani ellenisti, contrassegna, come si è detto, la storia del Cristianesimo sin dagli albori. Con l’affermazione dell’interpretazione paolina e la conversione dei pagani, i giudeocristiani ebrei perdono terreno e si riducono ad una minoranza. Essi però non si estinguono, bensì residuano sotto forma di sette, vive ancora agli inizi del III° secolo, - per esempio quella degli Ebioniti -, che praticano la circoncisione e l’osservanza tradizionale e il cui comune denominatore è l’avversione nei confronti di Paolo, considerato un traditore che avrebbe stravolto l’insegnamento di Gesù. Queste sette in pratica rivendicano la continuità tra religione ebraica e cristianesimo e sono incentrate sulla difesa della purezza della fede dalla contaminazione del mondo, vale a dire dei pagani.

Molto più pericolosa dell’Ebionismo è il movimento della gnosi che si sviluppa nel II° secolo. Le premesse della gnosi sono opposte a quelle dei giudeocristiani ebrei. Essa, infatti, postula un rifiuto radicale dell’eredità giudaica e, in nome di questo, contesta qualunque istituzionalizzazione del cristianesimo caratterizzata dal potere sacerdotale e dai riti. La gnosi fonde la religione interiore di Gesù con una ricerca che ogni credente deve fare dentro di sé sotto forma di tragitto conoscitivo orientato alla salvezza. Si tratta dunque di un movimento esoterico, necessariamente riservato a pochi eletti, orientato a rileggere i dati della fede cristiana alla luce di una spiegazione della realtà e della storia a sfondo mistico. In quanto riservata a pochi eletti, la gnosi non può certo incidere sulla Grande Chiesa in via di formazione. Essa ha però inciso, e profondamente, sulla teologia cristiana esasperando la contrapposizione tra l’anima e il corpo, già presente, in una certa misura, nel pensiero di Gesù e di Paolo. Nell’ottica gnostica, il corpo è la gabbia dell’anima che la contamina con le sue passioni, i suoi istinti e il suo essere preda di demoni maligni. La salvezza dunque non può passare che attraverso la mortificazione del corpo e il distacco dell’anima da esso.

Quelle citate sono solo le avvisaglie delle grandi eresie che la Chiesa dovrà affrontare ulteriormente. Esse, diversamente da quanto pensa la tradizione ecclesiale, la quale attribuisce le deviazioni dalla Verità rivelata al fraintendimento degli uomini, se non addirittura alla loro nequizia, significano che il messaggio originario di Gesù non ha la cristallina chiarezza che esso conseguirà in seguito ad una lunga elaborazione. Il prezzo della chiarezza, però, sarà il dogmatismo e la trasformazione delle originarie comunità cristiane, democratiche e assembleari, in una solida istituzione gerarchica e monarchica.

4. La diffusione in Occidente

Nel corso del II° secolo accade un cambiamento di grande portata. L’attesa della fine del mondo, durata alcune generazioni, si affievolisce. Le comunità cristiane non possono più progettarsi sul registro apocalittico. Esse sentono di appartenere ad un mondo destinato a durare, alla storia. Questo cambiamento, associato al dovere di portare il messaggio di Gesù a tutti gli uomini, comporta il confronto con l’Occidente e rende necessaria un’organizzazione istituzionale della Chiesa.

Se si assume come punto di riferimento di quel confronto il trionfo del Cristianesimo contrassegnato dalla conversione di Costantino nel 313 e dal suo assurgere a religione ufficiale, di Stato, la prospettiva temporale è quella di un nuovo "miracolo". In realtà, all’epoca non più del 10% della popolazione occidentale si è convertita al Cristianesimo. L’opposizione del paganesimo sia a livello di classi colte e agiate che della sterminata massa rurale è tenace e destinata a durare ancora per due secoli. Come si spiega dunque storicamente quel trionfo?

Occorre tenere conto di più fattori, alcuni comuni all’esperienza del Cristianesimo orientale, altri influenzati dal diverso contesto. I fattori comuni sono riconducibili al numero di schiavi e di indigenti presenti in Occidente e alle inquietudini religiose di gran parte della classe agiata. I fattori specifici, invece, sono identificabili nel potere dell’Imperatore, che svolge anche la funzione di Pontefice massimo se non di rappresentante sulla terra della divinità, e nel conservatorismo religioso della classe senatoria, che identifica nelle tradizioni e quindi anche nel rispetto degli dei che hanno assicurato l’ascesa di Roma, uno dei piedistalli dell’ordine che essa rappresenta.

Il confronto con questa struttura sociale verticistica obbliga la Chiesa a dotarsi di un’organizzazione istituzionale.

Nell’annuario pontificio, l’elenco dei papi parte da San Pietro e procede senza continuità sino ad oggi. Si tratta di una mistificazione storica. Nel corso del II° secolo il papa, inteso come autorità suprema riconosciuta da tutte le comunità cristiane, non esiste ancora. Nel corso del III° il vescovo di Roma assume una funzione di riferimento, che non implica però un potere assoluto sul clero e sui credenti. Tale funzione si fonda, peraltro, non sull’attribuzione di un Magistero, bensì semplicemente sul numero straordinario di membri che appartengono alla comunità cristiana, che non ha riscontro altrove, e sull’imponente patrimonio di cui essa dispone, che viene utilizzato anche per aiutare altre comunità. Il potere papale si afferma definitivamente, in termini di plenitudo potestatis, solo con Leone Magno nel corso del IV° secolo, ed è dovuto alla crisi dell’Impero romano che richiede una figura sostitutiva dell’Imperatore.

L’istituzionalizzazione della Chiesa nel corso del II° secolo non ha nulla a che vedere con il papato. Le comunità cristiane riconoscono ciascuna l’autorità del vescovo, e i vescovi hanno uguale potere, anche se gli uni sono più prestigiosi degli altri agli occhi dei fedeli. Il vero cambiamento sta nel fatto che il clero si separa dalla classe dei credenti e assume ruoli e funzioni specifiche.

La separazione implica l’allentamento della democrazia assembleare preesistente presso le comunità cristiane. Solo il vescovo è eletto da esse, ma egli rivendica il potere di scegliersi i collaboratori, i diaconi.

Il secondo cambiamento è più complesso e si articola a due diversi livelli.

Il primo livello è l’amministrazione dei beni. A differenza che in Oriente, in Occidente la conversione al Cristianesimo di rappresentanti della classe agiata è molto più rilevante, per quanto minoritaria rispetto a quella delle classi povere e degli schiavi. Essa, però, soprattutto per effetto della conversione di ricche vedove e vergini, dà luogo ad un accumulo di ricchezza destinato da allora ad aumentare. La disponibilità di denaro consente alla Chiesa di organizzarsi come una struttura assistenziale a favore dei bisognosi e degli indigenti, colmando una grave lacuna dell’apparato statale, e configurando un nuovo modello socioeconomico che, sulla base della fratellanza, comporta di fatto la ridistribuzione della ricchezza. L’assistenzialismo, che non opera distinzioni tra credenti e pagani, dà alla Chiesa un enorme prestigio sociale, che alimenta le conversioni. E’ il clero che amministra i beni della comunità; esso deve dunque provvedere sia all’accumulo che all’uso sociale del patrimonio.

Il secondo livello è di ordine spirituale. Il clero ha anche una funzione esemplare: esso deve testimoniare la possibilità per l’uomo di tendere verso la perfezione morale prescritta da Gesù. Su quale terreno si può realizzare in maniera differenziale tale funzione? Qui giungiamo ad uno dei nodi più complessi e controversi della dottrina cristiana. Se il pagano è colui che vive immerso nel mondo e travolto dalle sue passioni, le principali tra le quali sono la ricchezza (per chi può conseguirla) e la cupidigia carnale, e se il cristiano è colui che, in nome del premio eterno, pone freno a tali passioni mondane praticando l’elemosina e riversando i suoi desideri all’interno del matrimonio (considerato comunque da S. Paolo un’espressione di debolezza), il sacerdote è colui che si spoglia completamente di tali passioni, rinunciando alla proprietà personale e praticando la castità.

Egli viene ad incarnare così, agli occhi della comunità, l’uomo nuovo rigenerato dalla Passione e dalla Morte di Gesù: l’uomo che rimane nel mondo per adempiere la sua missione, ma scioglie definitivamente i vincoli passionali che lo legano ad esso.

L’istituzionalizzazione della Chiesa coincide dunque con la nascita del celibato ecclesiastico, che peraltro si afferma lentamente. Per spiegare questa scelta, scandalosa rispetto alla mentalità dell’epoca, e destinata ad incidere profondamente sulla storia della Chiesa e sulla teologia morale, occorre guardarsi dalle semplificazioni. E’ inutile cercare nei testi evangelici un qualunque riferimento ad essa. Gesù non ha mai proposto esplicitamente il celibato come condizione primaria di virtù. Si può ritenere, forse, che egli lo abbia scelto sulla base delle influenze esseniche. Ma è più probabile che si sia ritrovato a viverlo per effetto dell’assunzione di un ruolo – quello del predicatore nomade – che escludeva la residenzialità e l’attività lavorativa: in pratica la possibilità di mettere su famiglia e di provvedere ad essa.

E’ Paolo il primo ad opporre alla cupidigia la castità e la rinuncia al matrimonio. Ma quest’influenza dottrinaria non avrebbe avuto l’effetto di indurre nella Chiesa la scelta del celibato ecclesiastico senza il concorso di altri fattori. Due di questi sembrano importanti.

La differenziazione tra Cristianesimo e Giudaismo non allenta la tensione tra le due religioni che si contendono l’eredità biblica. Dopo la definita distruzione del Tempio a Gerusalemme, il Giudaismo si riorganizza intorno ai Rabbini, prescindendo dunque da una classe sacerdotale. Il confronto a distanza tra il clero cristiano e il rabbinismo implica una differenziazione netta. E’ in opposizione al fatto che i Rabbini si sposano che il clero cristiano sceglie il celibato per sancire la perennità di un nuovo potere sacerdotale.

Il secondo fattore è riconducibile all’immoralità vigente nel nuovo contesto occidentale, e in particolare a Roma. La corruzione dei costumi romani all’epoca è stata forse esasperata dagli storici della Chiesa. Essa però è un fatto certo. Il vincolo matrimoniale rarissimamente è rispettato, la lussuria dilaga, molti figli nascono da rapporti extramatrimoniali e la maggior parte di essi vengono abbandonati per le strade, diventando prede degli animali randagi di chi ha bisogno di schiavi. Roma insomma, agli occhi dei cristiani, è la dimostrazione vivente del potere degradante dell’istinto sessuale. La lotta contro questo istinto, già visto pericolosamente in azione nel corso di alcuni riti misterici orientali, diventa un elemento fondamentale della nascente teologia cattolica.

Dicembre 2004